Dazi Usa al 30%, costi fino a 35 mld per l’export italiano

Milano, Firenze e Modena sono i territori più “esposti” agli scambi con gli Stati Uniti. 116,5 mld il costo per tutto l’export europeo.

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L’Ufficio studi della CGIA calcola che, nel caso i dazi Usa imposti dall’amministrazione Trump dovessero rimanere gli stessi di oggi, costerebbero all’Italia 3,5 miliardi di euro circa di mancate esportazioni. Se, invece, le tariffe doganali dovessero essere innalzate al 20%, il danno economico ammonterebbe fino a 12 miliardi di euro. Ma nella lettera appena mandata da Trump a Bruxelles il dazio per l’export europeo sarà del 30%, quindi con costi che si avvicineranno ai 35 miliardi secondo la Cgia, ben più di quel 20% annunciato nel “Liberation Day” di qualche mese fa.

A livello europeo, un dazio generalizzato del 30% sui prodotti europei, mantenendo quelli settoriali al 50% per l’acciaio e l’alluminio e al 25% per auto e componentistica, il costo annuo per l’Unione europea sarebbe di circa 116,5 miliardi di euro, rispetto ai 7 che venivano riscossi prima della nuova politica commerciale del presidente Donald Trump. Nel dettaglio, il valore delle esportazioni di acciaio e alluminio è di 26 miliardi di euro, l’aliquota del 50% varrebbe 13 miliardi di euro; il valore del settore automotive è di 66 miliardi, dazi al 25% comportano il pagamento di 16,5 miliardi di euro; infine i dazi universali colpirebbero esportazioni per 290 miliardi di euro, contando l’aliquota al 30% sono 87 miliardi di euro. Il totale delle esportazioni Ue colpite da dazi Usa sarebbe di 382 miliardi di euro; il totale dei dazi teorici raccolti dagli Usa ammonterebbe quindi a 116,5 miliardi di euro.

Tornando all’Italia, l’ammontare delle esportazioni nazionali verso gli USA (nel 2024 la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi di euro) le cifre richiamate più sopra dovranno “misurarsi” con i seguenti interrogativi:

– i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti “Made in Italy”?

– a seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, contenendo i margini di profitto?

Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43% delle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49% di qualità media. Pertanto, sono prodotti che, verosimilmente, sono diretti ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali.

In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli USA presentano una incidenza delle vendite in questo mercato “solo” del 5,5% del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo è mediamente pari al 10% dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale “chiusura” di questo mercato inciderebbe relativamente poco. Inoltre, queste realtà produttive hanno mediamente buoni margini per ridurre il prezzo finale dei propri beni da vendere negli Usa, compensando, almeno in parte, gli aumenti provocati dall’introduzione delle barriere doganali.

Ovvio che potrebbero verificarsi delle situazioni molto più gravi di quelle appena descritte, se le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare una forte svalutazione del dollaro, che già ora si attesta attorno al 15%, innescare delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari.

Non solo. Come ha ricordato nelle sue “considerazioni finali” il 31 maggio scorso il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, «…il rischio più profondo è un altro: che il commercio, da motore di integrazione e dialogo, si trasformi in una fonte di divisione, alimentando l’instabilità politica e mettendo a repentaglio la pace». Oltre ad essere, sempre secondo Panetta nel corso del suo intervento all’assemblea dell’Associazione bancaria italiana, «un volano di recessione per l’economia europea e italiana».

Il volume di export italiano verso gli Usa che rappresentano il secondo mercato di sbocco, nel 2024 ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9% circa dell’intero export nazionale. In particolare, le categorie merceologiche maggiormente esportate negli USA includono i prodotti chimici/farmaceutici, gli autoveicoli, le navi/imbarcazioni e le macchine di impiego generale. Tali voci incidono per oltre il 40% delle vendite totali nel mercato statunitense. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44.000 unità; a questo dato si devono aggiungere le imprese dell’indotto non contabilizzate nelle statistiche Istat.

A livello territoriale, le regioni del Mezzogiorno sarebbero più penalizzate dall’incremento dei dazi Usa per via della ridotta diversificazione di prodotto e di un minore valore aggiunto, mentre quelle del Nord Italia sarebbero meno penalizzate, anche se in totale i maggiori costi ricadrebbero sulle aziende delle province di Milano, Firenze, Modena, Bologna e Torino producono un terzo delle merci italiane vendute in USA. La Città metropolitana di Milano è l’area geografica del Paese che esporta di più verso gli Stati Uniti: nel 2024 le vendite hanno toccato i 6,35 miliardi di euro. Seguono Firenze con 6,17, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5. Tutte assieme queste cinque realtà territoriali esportano quasi un terzo del totale nazionale delle merci destinate negli USA

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