Man mano che passano i giorni, la mangiatoia cinema si fa sempre più grande visto il numero di coloro che paiono averne approfittato a mani basse, con tanto di 10 inchieste penali attivate dalla Procura di Roma per un totale di 200 milioni pubblici erogati come “tax credit”.
Un sistema nato dalla riforma dell’ex ministro alla cultura, il Dem Dario Franceschini, che è finito con l’oliare produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali facendo gonfiare all’inverosimile i costi esposti dai produttori per registi, attori e personale vario per “pompare” il volume dei rimborsi fiscali senza che nessuno controllasse effettivamente la fondatezza delle richieste e, soprattutto, l’effettiva produzione del film finanziato con i soldi pubblici. Un settore affidato alle cure del sottosegretario alla Cultura con delega al cinema, la salviniana Lucia Borgonzoni nei governi Conte Uno, Draghi e Meloni che parerebbe non essersi accorta di nulla di quanto accadeva nella mangiatoia cinema.
Per l’Istituto Bruno Leoni «questa volta è stata la cronaca nera ad accendere nuovamente i riflettori su un sistema di finanziamento del cinema e dell’audiovisivo che mostra da tempo gravi falle. Possibili frodi, fondi pubblici utilizzati in modo dissennato e controlli assenti o inefficaci: è questo il quadro che emerge. La società che ha prodotto (o avrebbe dovuto produrre, perché non si sa se il film esista davvero…) l’opera di Rexal Ford, alias Francis Kaufmann, ha beneficiato di 4,2 milioni di aiuti in due anni: per un totale di 12 film, dei quali solo uno è stato girato».
«Centinaia sono i film che hanno richiesto il credito d’imposta e che non hanno mai raggiunto le sale – sottolinea l’Istituto Bruno Leoni -. Il meccanismo principale su cui si regge l’intero sistema è infatti quello del “tax credit”, una forma di incentivo che consente ai produttori di recuperare una parte consistente dei costi sostenuti. Uno “stimolo” di natura fiscale che ha favorito la realizzazione di opere in un numero spropositato: il sistema si è trasformato in una macchina senza freni e alla quantità raramente sono corrisposti qualità e incassi». Una situazione che probabilmente era l’obiettivo delle scelte dell’allora ministro Franceschini, forse “piegato” dalle pressioni della numerosissima schiatta di autori, produttori e registi di fede progressista, interessato a garantirsi un facile consenso a carico di tutti i contribuenti, visto che il “tax credit” cinema pare essere costato la bellezza di 4 miliardi di euro.
Una situazione drammaticamente esplosa su cui hanno tentato tardivamente di intervenire i ministri del governo Meloni: «per arginare questa deriva, con due regolamenti, il governo è intervenuto nel 2024 e poi di recente – afferma l’IBL -. A seguito del “caso Kaufmann”, in questi giorni il ministro Giuli ha annunciato nuove regole per il “tax credit” internazionale, la firma di un protocollo con la Guardia di finanza e lo stanziamento di risorse per aumentare il sistema di monitoraggio e investigare su casi pregressi sospetti».
Di fatto, l’intervento tardivo sulla mangiatoia cinema è il classico esempio di come si possa recuperare alla spesa pubblica centinaia di milioni di euro di scialo clientelare, che spesso, troppo in verità, è ignorato dai vari responsabili dei dicasteri, finendo col gonfiare all’inverosimile la spesa pubblica. Per l’Istituto Bruno Leoni «tutto ciò segnala che, contrariamente all’opinione di molti, la “spending review”- minuta, se si vuole, puntuale, a livello del singolo capitolo di spesa – è non solo possibile ma anche necessaria. Nel caso di specie, poi, dovrebbe essere l’indispensabile premessa a una seria riflessione su che cos’è l’industria cinematografica e qual è il ruolo che deve ricoprire lo Stato in questo settore economico. Perché il cinema – e più in generale l’audiovisivo – è al tempo stesso industria e prodotto culturale, e richiede strumenti di governance dedicati».
Non solo: «c’è la necessità di riformare l’intero impianto dei contributi pubblici. In questi anni, se da una parte gli incentivi hanno portato a una vera e propria iper-produzione, alterando i “sani” meccanismi di mercato, dall’altra si è assistito ad un’esplosione dei costi: sia per lo Stato che per la realizzazione stessa delle singole opere. Su scala inferiore, la dinamica può essere assimilabile a quella del celebre superbonus edilizio per l’efficientamento energetico. La vera “cinema revolution” non è allora quella di mettere i biglietti a 3,50 euro per portare il pubblico in sala, ma quella di ristabilire un equilibrio tra intervento pubblico e logiche di mercato. In caso contrario, continueremo a produrre film che nessuno vede, con soldi che nessuno controlla, in un sistema che si autoalimenta fino al prossimo scandalo».
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